Intervento del Presidente Mattarella
in occasione della Celebrazione della Festa del Lavoro
Palazzo del Quirinale, 01/05/2015
Saluto e
ringrazio il Presidente del Senato, la Presidente della Camera dei Deputati, il
Ministro del Lavoro, il giudice costituzionale Giuliano Amato, i nuovi Maestri
del Lavoro che hanno appena ricevuto le Stelle al Merito, e quanti hanno preso
la parola in questa cerimonia.
Oggi, 1° maggio, è giorno di festa e il mio ringraziamento, insieme all’augurio più caloroso, è rivolto a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori, in ogni parte d’Italia.
La festa deve risvegliare speranze e impegni condivisi. Ma, per farlo, deve fondarsi su parole sincere. Solo così contrasteremo la sfiducia.
Sul lavoro si fonda la nostra Repubblica. Tuttavia, proprio mentre affermiamo questo principio, avvertiamo come una ferita lacerante nel corpo sociale, e nello stesso tessuto democratico, la cifra così alta di nostri concittadini che non trovano occupazione, che sono stati espulsi dal processo produttivo, che lavorano saltuariamente e nella precarietà, non riuscendo a vivere con serenità con i propri familiari.
Tante lettere che ricevo dai nostri concittadini confermano questa drammatica situazione. Padri, madri, persino nonni, non chiedono nulla per se stessi. Non lamentano i forti sacrifici a cui si sottopongono per aiutare economicamente figli e nipoti. Chiedono speranza e futuro per i loro ragazzi. E’ un appello, insieme angosciato e dignitoso, che non possiamo lasciare senza risposta.
Non faremmo onore al 1° maggio se non fossimo capaci di guardare con adeguata presa di coscienza e con solidarietà questa condizione inaccettabile, che deve continuamente spingere le istituzioni, le imprese, le forze sociali e sindacali a fare di più. A innovare, a investire, a progettare affinché il lavoro sia per tutti.
E’ la nostra Costituzione a dirci che non dobbiamo mai rassegnarci alla negazione di un diritto costitutivo della cittadinanza.
Non c’è realismo politico, né compatibilità economica che possa trasformare la persona in un numero, e che possa imporci di accettare l’esclusione come ineluttabile.
La nostra Carta fondamentale ci indica un obiettivo, che è anche un obbligo morale e civile: cercare costantemente di costruire le condizioni per allargare le basi del lavoro, fino alla piena occupazione. Due parole, piena occupazione, che sembrano quasi archiviate, tanti sono diventati i disoccupati – più di tre milioni – e tanto drammaticamente sono cresciuti negli anni della crisi, raddoppiando il dato del 2008. Dobbiamo invece tornare a pronunciare insieme quelle parole – “piena occupazione” – che anche il trattato di Lisbona ha riproposto come obiettivo dell’intera Unione europea. Dobbiamo pronunciarle perché siano uno stimolo per tutti noi, per le istituzioni pubbliche, per il governo e il Parlamento, per le diverse parti politiche, per gli imprenditori e i sindacati. Perché il lavoro diventi la prima delle priorità e sia chiara la nostra determinazione: non ci rassegniamo e non ci scoraggiamo.
Vogliamo usare tutto il nostro ingegno, le nostre conoscenze, la nostra cultura, le nostre tecnologie, la nostra forza produttiva e sociale per creare e distribuire lavoro. Un lavoro sempre più orientato alla qualità del vivere e allo sviluppo sostenibile, perché questa è la sfida di competitività a cui è chiamata l’Europa.
Tenere alto lo sguardo non è affatto un cedimento alla demagogia, o il presupposto di una inevitabile delusione futura. Al contrario, porsi obiettivi di alto valore civile e morale è il solo modo per sconfiggere il minimalismo e la sfiducia.
Guardare avanti dà un senso anche ai passi che siamo in grado di compiere oggi, ai risultati parziali, a quei dati che ogni settimana scorriamo, con ansia e speranza, cercando di cogliere le tracce più incoraggianti.
Oggi, 1° maggio, è giorno di festa e il mio ringraziamento, insieme all’augurio più caloroso, è rivolto a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori, in ogni parte d’Italia.
La festa deve risvegliare speranze e impegni condivisi. Ma, per farlo, deve fondarsi su parole sincere. Solo così contrasteremo la sfiducia.
Sul lavoro si fonda la nostra Repubblica. Tuttavia, proprio mentre affermiamo questo principio, avvertiamo come una ferita lacerante nel corpo sociale, e nello stesso tessuto democratico, la cifra così alta di nostri concittadini che non trovano occupazione, che sono stati espulsi dal processo produttivo, che lavorano saltuariamente e nella precarietà, non riuscendo a vivere con serenità con i propri familiari.
Tante lettere che ricevo dai nostri concittadini confermano questa drammatica situazione. Padri, madri, persino nonni, non chiedono nulla per se stessi. Non lamentano i forti sacrifici a cui si sottopongono per aiutare economicamente figli e nipoti. Chiedono speranza e futuro per i loro ragazzi. E’ un appello, insieme angosciato e dignitoso, che non possiamo lasciare senza risposta.
Non faremmo onore al 1° maggio se non fossimo capaci di guardare con adeguata presa di coscienza e con solidarietà questa condizione inaccettabile, che deve continuamente spingere le istituzioni, le imprese, le forze sociali e sindacali a fare di più. A innovare, a investire, a progettare affinché il lavoro sia per tutti.
E’ la nostra Costituzione a dirci che non dobbiamo mai rassegnarci alla negazione di un diritto costitutivo della cittadinanza.
Non c’è realismo politico, né compatibilità economica che possa trasformare la persona in un numero, e che possa imporci di accettare l’esclusione come ineluttabile.
La nostra Carta fondamentale ci indica un obiettivo, che è anche un obbligo morale e civile: cercare costantemente di costruire le condizioni per allargare le basi del lavoro, fino alla piena occupazione. Due parole, piena occupazione, che sembrano quasi archiviate, tanti sono diventati i disoccupati – più di tre milioni – e tanto drammaticamente sono cresciuti negli anni della crisi, raddoppiando il dato del 2008. Dobbiamo invece tornare a pronunciare insieme quelle parole – “piena occupazione” – che anche il trattato di Lisbona ha riproposto come obiettivo dell’intera Unione europea. Dobbiamo pronunciarle perché siano uno stimolo per tutti noi, per le istituzioni pubbliche, per il governo e il Parlamento, per le diverse parti politiche, per gli imprenditori e i sindacati. Perché il lavoro diventi la prima delle priorità e sia chiara la nostra determinazione: non ci rassegniamo e non ci scoraggiamo.
Vogliamo usare tutto il nostro ingegno, le nostre conoscenze, la nostra cultura, le nostre tecnologie, la nostra forza produttiva e sociale per creare e distribuire lavoro. Un lavoro sempre più orientato alla qualità del vivere e allo sviluppo sostenibile, perché questa è la sfida di competitività a cui è chiamata l’Europa.
Tenere alto lo sguardo non è affatto un cedimento alla demagogia, o il presupposto di una inevitabile delusione futura. Al contrario, porsi obiettivi di alto valore civile e morale è il solo modo per sconfiggere il minimalismo e la sfiducia.
Guardare avanti dà un senso anche ai passi che siamo in grado di compiere oggi, ai risultati parziali, a quei dati che ogni settimana scorriamo, con ansia e speranza, cercando di cogliere le tracce più incoraggianti.
Se il
lavoro è la priorità per le famiglie italiane, se il lavoro è alla base dello
stesso edificio democratico, è inevitabile che susciti un animato confronto
politico, con proposte anche contrastanti fra loro. Questo è il sale della
democrazia.
Ma, se il lavoro è uno dei beni più preziosi di una comunità, su di esso bisogna anche saper indirizzare sforzi convergenti e trovare, nel dialogo, impegni comuni. Ad esempio, gli incentivi fiscali per i nuovi contratti a tempo indeterminato e la riduzione del cuneo per i redditi medio-bassi, che governo e Parlamento hanno realizzato, erano, in vario modo, auspicati da un amplissimo arco di forze politiche. Il ministro Poletti ci ha appena ricordato che queste misure sono tra le ragioni di alcuni dati registrati nei primi tre mesi del 2015. Mi auguro che il sistema-Paese riesca ad orientare la dialettica delle idee e degli interessi in modo da sostenere le spinte positive e trasformarle in un’autentica inversione di tendenza.
Ci troviamo a un crocevia decisivo. Ciò che accadrà nei prossimi mesi condizionerà un ciclo lungo.
Ci sono ancora egoismi e difese corporative che frenano le nostre potenzialità, e aggravano le iniquità. Non possiamo accettare che una parte dell’Italia sia tagliata fuori, abbandonata, considerata, ormai, ai margini dei progetti di sviluppo.
L’unità nazionale è minacciata se non si ridefinisce quella coesione sociale che la lunga crisi ha posto in sofferenza. Oggi il tasso di disoccupazione giovanile raggiunge livelli allarmanti. Oggi il divario tra Nord e Sud del Paese in termini di sviluppo e di lavoro si è fatto ancora più grande rispetto all’inizio della crisi.
Rischia di delinearsi una vera e propria società di esclusi, divisa dal resto della comunità da una barriera di diritti e di opportunità negate.
Questo va impedito. Con tutte le forze e la dignità di cui siamo capaci. In ogni caso, il lavoro resta il legame esistenziale tra la persona e la comunità. Non c’è pieno riconoscimento della persona se il diritto al lavoro è negato. Non ci sono legami stabili senza lavoro, e dunque possono essere compromesse le prospettive di futuro, la famiglia, le formazioni sociali.
Nessuna società sviluppata, che cerchi di tenere alta la competitività del proprio sistema economico, può permettersi di rinunciare a un’intera generazione di giovani. Senza lavoro, in un contesto di emarginazione sociale, crescerebbe lo scoraggiamento e il rifiuto. Il conflitto generazionale che dobbiamo temere di più è quello che nasce dall’esclusione.
Il piano di Garanzia Giovani non ha dato nei primi dodici mesi i risultati sperati, in Italia e nel resto d’Europa, tuttavia è importante che il governo stia lavorando per accrescerne l’efficacia; e che sostenga le misure attuative per le decine di migliaia di giovani presi in carico da parte dei Centri per l’impiego. Se la capacità di innovazione è indice fondamentale della competitività del Paese, non possiamo fare a meno del lavoro dei giovani, della loro energia, della loro inventiva, del loro ingresso nella società da protagonisti. Ugualmente la distanza tra il Mezzogiorno e il resto d’Italia sta assumendo gravissime dimensioni . Non parliamo solo di differenziali di reddito e di occupazione: al Sud, come rileva la Banca d’Italia, crescono contestualmente anche la pressione fiscale – dovuta a una crescita di tasse regionali e locali – e i tagli alla spesa pubblica.
Una nuova questione meridionale si pone davanti al Paese, se si vuole, come tutti noi vogliamo con convinzione, compiere un salto in avanti verso uno sviluppo più equo e sostenibile. Ovviamente, il tema non è fornire assistenza, o sostegno fuori da logiche di efficienza e di competitività. Semmai, la ragione è opposta: affinché l’Italia torni a crescere, è assolutamente necessario che il Mezzogiorno riparta. Utilizzando i suoi saperi, le sue bellezze, valorizzando il territorio e le diversità tra i vari Sud, sperimentando nuove produzioni e creando servizi che migliorino la qualità della vita. Ogni esclusione all’interno del Paese è insopportabile. Anche per questo, va sottolineato ancora il valore decisivo della legalità, e della lotta a ogni forma di corruzione e di criminalità: sono piaghe purtroppo presenti, ma non sono incurabili.
La civiltà, la Costituzione, il bene comune possono prevalere. Devono prevalere. Bisogna essere severi anzitutto con noi stessi, avendo ben chiaro che la legalità è condizione ormai indispensabile per la competitività stessa dell’Italia e per la possibilità di preservare, innovando, il modello sociale europeo.
Nessun cittadino italiano deve sentirsi abbandonato. Nessuno deve gettare la spugna. L’Italia è un grande Paese, ha storia, cultura, risorse, intelligenze. E’ capace di solidarietà e di relazioni positive, e pure questo costituisce una ricchezza, immateriale ma preziosissima.
Oggi comincia l’Expo di Milano. Sarà una vetrina mondiale. Per il nostro Paese rappresenta una straordinaria opportunità. Soprattutto perché il tema – nutrire gli abitanti del pianeta, e dunque garantire a tutti il diritto alla vita – è di portata epocale, e riguarda il modello di crescita e la convivenza futura tra i popoli. Siamo al centro di un confronto globale. Le nostre imprese, la nostra ricerca, la nostra capacità organizzativa saranno sfidate e, sono certo, tutto il Paese ne trarrà beneficio.
Ammodernare l’Italia offrendo ancor più qualità, all’interno e sui mercati: questo è l’orizzonte. Uno dei fattori più importanti di modernizzazione – è bene sottolinearlo – è la crescita dell’occupazione femminile, unita al superamento di tutte discriminazioni che ancora impediscono una piena parità sul piano dei salari, delle opportunità di lavoro, dell’accesso alle funzioni direttive.
Tanta strada è stata compiuta. Tanta ricchezza sociale, culturale, economica è stata prodotta dalla maggiore partecipazione delle donne alla vita lavorativa. Tuttavia, il livello di occupazione femminile del nostro Paese non può certo soddisfarci: meno di una donna su due ha un lavoro, e il 46,7%, registrato dall’Istat, ci colloca al penultimo posto nell’Unione europea. Anche questa è una priorità nazionale. La penalizzazione del lavoro femminile è condizione di arretratezza. Toglie risorse e qualità alle imprese. L’incremento del lavoro delle donne, peraltro, favorirebbe non solo la crescita del Pil, ma anche la riduzione della povertà, perché sarebbe un volano di molteplici attività nei servizi. Non è neppure vero che più lavoro alle donne provochi problemi alle famiglie e minore natalità. I dati dimostrano esattamente il contrario: dove cresce l’occupazione femminile, aumenta la natalità e c’è un incremento dei servizi.
Le istituzioni pubbliche devono fare la loro parte per favorire la conciliazione dei tempi di lavoro con quelli familiari, di cura e di assistenza alle persone non autosufficienti. Il ministro Poletti ha indicato, in uno dei due decreti attuativi della riforma del mercato del lavoro, lo strumento utile per allargare la partecipazione delle donne al lavoro. Confido in un dialogo proficuo e un impegno comune, anche con le forze sociali e sindacali.
Un saluto, in questo Primo maggio, a tutte le Organizzazioni sindacali. I segretari generali di Cgil, Cisl e Uil sono a Pozzallo, in provincia di Ragusa, avendo scelto di dedicare alla solidarietà con i migranti e all’integrazione la loro tradizionale manifestazione.Saluto anche i tanti giovani che oggi si ritroveranno a Roma, in piazza San Giovanni per il concerto.
Abbiamo davvero bisogno di uno sforzo corale per metterci alle spalle la crisi economica e ripartire nel segno dell’innovazione.
Impresa e lavoro devono saper riconoscere anche i grandi interessi comuni, perché questo è parte del rilancio del Paese.
Più saremo capaci di coesione e di determinazione, più aiuteremo l’Europa a imboccare politiche orientate alla crescita. Perché è chiaro a tutti che l’Unione europea deve correggere la propria rotta.
Non è in discussione il nostro europeismo. Di una maggiore integrazione politica abbiamo bisogno, oggi ancora più di ieri. Ma servono politiche che diminuiscano gli squilibri interni e non impoveriscano i fattori produttivi con un eccesso di rigore. Per creare occupazione servono anzitutto investimenti. In Europa, invece, la caduta degli investimenti, negli ultimi anni, è stata drammatica. Cambiare registro è una questione vitale. Dobbiamo impegnarci tutti affinché il piano Juncker, e il relativo Fondo europeo per gli investimenti, risponda positivamente alle domande per le quali è stato istituito. A questo obiettivo strategico dobbiamo richiamare tutti i nostri partner: senza investimenti e senza lavoro, rischia di essere vanificata l’intera costruzione europea.
Le morti sul lavoro restano intollerabili. Nel nostro Paese gli incidenti sul lavoro sono troppi anche se, nel corso degli ultimi anni, se ne è registrata una leggera flessione. Nelle analisi comparative si riescono a cogliere gli effetti dell’intervento legislativo e di un potenziamento dei controlli. Molto resta da fare. La sicurezza è parte del diritto al lavoro, è fattore di civiltà, è garanzia di qualità. L’impegno, ancora una volta, riguarda tutti: politica, imprese, sindacati, agenzie di controllo. Un’attenzione particolare deve essere rivolta al contrasto allo sfruttamento del lavoro minorile e a quello degli immigrati. La qualità del lavoro italiano deve cominciare dall’ambiente in cui il lavoro si svolge. I prodotti e i servizi saranno espressione di questa qualità. Come lo sarà il grado di integrazione sociale. Contro l’esclusione, per stringere legami di solidarietà, un’azione sociale decisiva viene svolta, quotidianamente, da quanti lei, prof. Zappi, ha definito “i più avanti in età”. Senza la tessitura sociale degli anziani, il volto del Paese non sarebbe lo stesso.
Ma, se il lavoro è uno dei beni più preziosi di una comunità, su di esso bisogna anche saper indirizzare sforzi convergenti e trovare, nel dialogo, impegni comuni. Ad esempio, gli incentivi fiscali per i nuovi contratti a tempo indeterminato e la riduzione del cuneo per i redditi medio-bassi, che governo e Parlamento hanno realizzato, erano, in vario modo, auspicati da un amplissimo arco di forze politiche. Il ministro Poletti ci ha appena ricordato che queste misure sono tra le ragioni di alcuni dati registrati nei primi tre mesi del 2015. Mi auguro che il sistema-Paese riesca ad orientare la dialettica delle idee e degli interessi in modo da sostenere le spinte positive e trasformarle in un’autentica inversione di tendenza.
Ci troviamo a un crocevia decisivo. Ciò che accadrà nei prossimi mesi condizionerà un ciclo lungo.
Ci sono ancora egoismi e difese corporative che frenano le nostre potenzialità, e aggravano le iniquità. Non possiamo accettare che una parte dell’Italia sia tagliata fuori, abbandonata, considerata, ormai, ai margini dei progetti di sviluppo.
L’unità nazionale è minacciata se non si ridefinisce quella coesione sociale che la lunga crisi ha posto in sofferenza. Oggi il tasso di disoccupazione giovanile raggiunge livelli allarmanti. Oggi il divario tra Nord e Sud del Paese in termini di sviluppo e di lavoro si è fatto ancora più grande rispetto all’inizio della crisi.
Rischia di delinearsi una vera e propria società di esclusi, divisa dal resto della comunità da una barriera di diritti e di opportunità negate.
Questo va impedito. Con tutte le forze e la dignità di cui siamo capaci. In ogni caso, il lavoro resta il legame esistenziale tra la persona e la comunità. Non c’è pieno riconoscimento della persona se il diritto al lavoro è negato. Non ci sono legami stabili senza lavoro, e dunque possono essere compromesse le prospettive di futuro, la famiglia, le formazioni sociali.
Nessuna società sviluppata, che cerchi di tenere alta la competitività del proprio sistema economico, può permettersi di rinunciare a un’intera generazione di giovani. Senza lavoro, in un contesto di emarginazione sociale, crescerebbe lo scoraggiamento e il rifiuto. Il conflitto generazionale che dobbiamo temere di più è quello che nasce dall’esclusione.
Il piano di Garanzia Giovani non ha dato nei primi dodici mesi i risultati sperati, in Italia e nel resto d’Europa, tuttavia è importante che il governo stia lavorando per accrescerne l’efficacia; e che sostenga le misure attuative per le decine di migliaia di giovani presi in carico da parte dei Centri per l’impiego. Se la capacità di innovazione è indice fondamentale della competitività del Paese, non possiamo fare a meno del lavoro dei giovani, della loro energia, della loro inventiva, del loro ingresso nella società da protagonisti. Ugualmente la distanza tra il Mezzogiorno e il resto d’Italia sta assumendo gravissime dimensioni . Non parliamo solo di differenziali di reddito e di occupazione: al Sud, come rileva la Banca d’Italia, crescono contestualmente anche la pressione fiscale – dovuta a una crescita di tasse regionali e locali – e i tagli alla spesa pubblica.
Una nuova questione meridionale si pone davanti al Paese, se si vuole, come tutti noi vogliamo con convinzione, compiere un salto in avanti verso uno sviluppo più equo e sostenibile. Ovviamente, il tema non è fornire assistenza, o sostegno fuori da logiche di efficienza e di competitività. Semmai, la ragione è opposta: affinché l’Italia torni a crescere, è assolutamente necessario che il Mezzogiorno riparta. Utilizzando i suoi saperi, le sue bellezze, valorizzando il territorio e le diversità tra i vari Sud, sperimentando nuove produzioni e creando servizi che migliorino la qualità della vita. Ogni esclusione all’interno del Paese è insopportabile. Anche per questo, va sottolineato ancora il valore decisivo della legalità, e della lotta a ogni forma di corruzione e di criminalità: sono piaghe purtroppo presenti, ma non sono incurabili.
La civiltà, la Costituzione, il bene comune possono prevalere. Devono prevalere. Bisogna essere severi anzitutto con noi stessi, avendo ben chiaro che la legalità è condizione ormai indispensabile per la competitività stessa dell’Italia e per la possibilità di preservare, innovando, il modello sociale europeo.
Nessun cittadino italiano deve sentirsi abbandonato. Nessuno deve gettare la spugna. L’Italia è un grande Paese, ha storia, cultura, risorse, intelligenze. E’ capace di solidarietà e di relazioni positive, e pure questo costituisce una ricchezza, immateriale ma preziosissima.
Oggi comincia l’Expo di Milano. Sarà una vetrina mondiale. Per il nostro Paese rappresenta una straordinaria opportunità. Soprattutto perché il tema – nutrire gli abitanti del pianeta, e dunque garantire a tutti il diritto alla vita – è di portata epocale, e riguarda il modello di crescita e la convivenza futura tra i popoli. Siamo al centro di un confronto globale. Le nostre imprese, la nostra ricerca, la nostra capacità organizzativa saranno sfidate e, sono certo, tutto il Paese ne trarrà beneficio.
Ammodernare l’Italia offrendo ancor più qualità, all’interno e sui mercati: questo è l’orizzonte. Uno dei fattori più importanti di modernizzazione – è bene sottolinearlo – è la crescita dell’occupazione femminile, unita al superamento di tutte discriminazioni che ancora impediscono una piena parità sul piano dei salari, delle opportunità di lavoro, dell’accesso alle funzioni direttive.
Tanta strada è stata compiuta. Tanta ricchezza sociale, culturale, economica è stata prodotta dalla maggiore partecipazione delle donne alla vita lavorativa. Tuttavia, il livello di occupazione femminile del nostro Paese non può certo soddisfarci: meno di una donna su due ha un lavoro, e il 46,7%, registrato dall’Istat, ci colloca al penultimo posto nell’Unione europea. Anche questa è una priorità nazionale. La penalizzazione del lavoro femminile è condizione di arretratezza. Toglie risorse e qualità alle imprese. L’incremento del lavoro delle donne, peraltro, favorirebbe non solo la crescita del Pil, ma anche la riduzione della povertà, perché sarebbe un volano di molteplici attività nei servizi. Non è neppure vero che più lavoro alle donne provochi problemi alle famiglie e minore natalità. I dati dimostrano esattamente il contrario: dove cresce l’occupazione femminile, aumenta la natalità e c’è un incremento dei servizi.
Le istituzioni pubbliche devono fare la loro parte per favorire la conciliazione dei tempi di lavoro con quelli familiari, di cura e di assistenza alle persone non autosufficienti. Il ministro Poletti ha indicato, in uno dei due decreti attuativi della riforma del mercato del lavoro, lo strumento utile per allargare la partecipazione delle donne al lavoro. Confido in un dialogo proficuo e un impegno comune, anche con le forze sociali e sindacali.
Un saluto, in questo Primo maggio, a tutte le Organizzazioni sindacali. I segretari generali di Cgil, Cisl e Uil sono a Pozzallo, in provincia di Ragusa, avendo scelto di dedicare alla solidarietà con i migranti e all’integrazione la loro tradizionale manifestazione.Saluto anche i tanti giovani che oggi si ritroveranno a Roma, in piazza San Giovanni per il concerto.
Abbiamo davvero bisogno di uno sforzo corale per metterci alle spalle la crisi economica e ripartire nel segno dell’innovazione.
Impresa e lavoro devono saper riconoscere anche i grandi interessi comuni, perché questo è parte del rilancio del Paese.
Più saremo capaci di coesione e di determinazione, più aiuteremo l’Europa a imboccare politiche orientate alla crescita. Perché è chiaro a tutti che l’Unione europea deve correggere la propria rotta.
Non è in discussione il nostro europeismo. Di una maggiore integrazione politica abbiamo bisogno, oggi ancora più di ieri. Ma servono politiche che diminuiscano gli squilibri interni e non impoveriscano i fattori produttivi con un eccesso di rigore. Per creare occupazione servono anzitutto investimenti. In Europa, invece, la caduta degli investimenti, negli ultimi anni, è stata drammatica. Cambiare registro è una questione vitale. Dobbiamo impegnarci tutti affinché il piano Juncker, e il relativo Fondo europeo per gli investimenti, risponda positivamente alle domande per le quali è stato istituito. A questo obiettivo strategico dobbiamo richiamare tutti i nostri partner: senza investimenti e senza lavoro, rischia di essere vanificata l’intera costruzione europea.
Le morti sul lavoro restano intollerabili. Nel nostro Paese gli incidenti sul lavoro sono troppi anche se, nel corso degli ultimi anni, se ne è registrata una leggera flessione. Nelle analisi comparative si riescono a cogliere gli effetti dell’intervento legislativo e di un potenziamento dei controlli. Molto resta da fare. La sicurezza è parte del diritto al lavoro, è fattore di civiltà, è garanzia di qualità. L’impegno, ancora una volta, riguarda tutti: politica, imprese, sindacati, agenzie di controllo. Un’attenzione particolare deve essere rivolta al contrasto allo sfruttamento del lavoro minorile e a quello degli immigrati. La qualità del lavoro italiano deve cominciare dall’ambiente in cui il lavoro si svolge. I prodotti e i servizi saranno espressione di questa qualità. Come lo sarà il grado di integrazione sociale. Contro l’esclusione, per stringere legami di solidarietà, un’azione sociale decisiva viene svolta, quotidianamente, da quanti lei, prof. Zappi, ha definito “i più avanti in età”. Senza la tessitura sociale degli anziani, il volto del Paese non sarebbe lo stesso.
Nell’inversione di rotta che auspichiamo, non dobbiamo
dimenticare chi ha maggiori difficoltà: la crisi economica ha avuto un impatto
negativo sul percorso di inclusione delle persone con disabilità, per le quali
si sono ridotti gli accessi al lavoro e sono aumentati i contratti meno
stabili.
E’ una questione di rilievo, di grande rilievo.
L’Italia ce la farà, tenendo alti i valori sui quali si fonda la nostra democrazia. L’innovazione è la nostra sfida. Il coraggio dell’impresa e la solidarietà di cui è capace la nostra comunità sono garanzie.
Buon Primo maggio a tutti.
E’ una questione di rilievo, di grande rilievo.
L’Italia ce la farà, tenendo alti i valori sui quali si fonda la nostra democrazia. L’innovazione è la nostra sfida. Il coraggio dell’impresa e la solidarietà di cui è capace la nostra comunità sono garanzie.
Buon Primo maggio a tutti.
INTERVENTO DEL PRESIDENTE DELLA FEDERAZIONE MAESTRI DEL LAVORO D’ITALIA
1° maggio
2015
Signor
Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, autorità tutte, signore e signori,
porgo il saluto della Federazione dei Maestri del Lavoro d'Italia, dei
Consiglieri Nazionali, dei Consoli Regionali e Provinciali, di tutti gli
Associati.
Ringrazio il
Capo dello Stato che ha rinnovato la disponibilità ad ospitare ed organizzare
la cerimonia di consegna delle Stelle al Merito del Lavoro, in questo palazzo
ricco di storia e tradizioni, confermando sensibilità ed attenzione nei confronti
del nostro Ente Morale. La sua presenza prestigiosa signor Presidente, e di ciò ne sono
fiducioso, sarà una costante nel nostro futuro.
La sua
elezione al Quirinale ha sanato il vulnus istituzionale che aveva costretto il
suo stimato predecessore ,Senatore Giorgio Napolitano alla riconferma,
riconquistando così la nostra credibilità internazionale. Gli Italiani hanno recuperato
fiducia nella possibilità che il paese possa uscire dalla crisi morale,
istituzionale ed economica.Le sue qualità,
la sua professionalità, le sue esperienze di vita sono da tutti riconosciute
e il suo stile essenziale conquista perché fa da contrappunto a confronti esacerbati e
superficiali.
Il tempo
passa e gli accadimenti mutano le concezioni culturali e quindi anche le regole
dei sistemi sociali nonché le architetture istituzionali. Il nostro Paese pare consapevole
di questi mutamenti e quindi pronto a scrivere pagine nuove. Ma la democrazia è
un sistema complesso e serve la Sua competenza ed imparzialità perché le nuove
regole siano ben calibrate.Occorre confrontarsi senza pregiudizi e con
oggettività, cercando di sfuggire al dolore cervicale di voler costruire il
futuro con la testa rivolta sempre all'indietro.
Rivolgo un
caloroso saluto di benvenuto ai nuovi Maestri, che da oggi fanno parte della
nostra grande e variegata famiglia. Sottolineo a voce alta che l’onorificenza
conferita dal Capo dello Stato, premia l’operosità, lo spirito di
iniziativa e la dedizione al lavoro, fattori di progresso sociale.
Il mondo del
lavoro, dal quale proveniamo deve dimostrare costantemente che “l'italiano”
è presente e non è secondo a nessuno per capacità, qualità ed impegno. Proprio in questo
senso auspichiamo che Expo 2015, che giusto in questo momento si sta
inaugurando a Milano, possa restituirci la consapevolezza delle nostre virtù e slancio per
un futuro migliore.Già a suo
tempo un Capo dello Stato ci definì “parte eletta della Nazione”. I Maestri del
Lavoro sono, infatti, un patrimonio della società ed oggi, come già nel
passato, devono trasmettere la propria esperienza professionale ai giovani unitamente
ai valori etici che ci hanno supportato e confortato nei periodi difficili.Ciò avviene
tramite l’attività di Scuola Lavoro e Sicurezza che nel corso del 2014 ha
avvicinato circa 60.000 studenti.Di tutto
questo, noi Maestri, ne abbiamo fatto un impegno prioritario, un obiettivo da raggiungere
giorno dopo giorno. Lo facciamo con puro spirito volontario e disinteressato.
Il nostro unico sostegno è la modesta quota associativa degli iscritti.
Purtroppo, a
suo tempo, il mutamento introdotto dalla modifica dell’art. V della Costituzione,
portò la Corte Costituzionale a cancellare il contributo che la legge 143/92
prevedeva a nostro favore.
La presenza
del Ministro del Lavoro On. Giuliano Poletti mi offre l’opportunità,
nel mio ruolo istituzionale di
Presidente, di assumere la responsabilità ed il
coraggio di osare per rammentare un aspetto fondamentale per
la nostra Federazione.
Al di là dell’aspetto economico, la legge che regola la concessione delle
Stelle al
Merito del Lavoro deve essere aggiornata in quanto i rigidi paletti
per la concessione
della Stella -specie
laddove si richiede 25 anni di attività di dipendenza diretta
ininterrotta -non sono più adeguati rispetto alle
nuove condizioni lavorative.
Per
sopperire a ciò, abbiamo da tempo provveduto ad inoltrare una petizione ad una struttura
governativa .Chiediamo pertanto pubblicamente il suo interessamento, sig.
Ministro, fiduciosi della sua disponibilità ed attenzione onde accelerare
l’iter di questi necessari cambiamenti.
Un grazie al
Sig. Presidente della Repubblica Sergio Mattarella al Ministro del Lavoro, alle
Autorità civili e militari, al dott. Ugo Zampetti, Segretario Generale della Presidenza
ed a tutte le strutture del Quirinale e del Ministero del Lavoro che hanno collaborato
per siffatto incontro che rimarrà nel nostro cuore e nella nostra mente.
Ringrazio
tutti i protagonisti ed i partecipanti a questa straordinaria giornata.
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